House of cards – Season 3
Ho visto la terza stagione di “House of cards” grazie al mio abbonamento a Netflix, in una decina di giorni all’inizio di marzo.
Ovviamente qui sotto ci sono un sacco di spoiler. Procedete a vostro rischio dopo il break.
Ho iniziato a vedere questa terza serie con aspettative molto, molto alte: le prime due stagioni sono state appassionanti, scritte e girate molto bene, al di sopra degli standard anche per le serie tv americane. Da questo punto di vista, la produzione per la parte audio video è confermata: si lavora a un livello egregio.
La stagione comincia subito nel vivo e riprende esattamente da dove era finita la seconda: Frank Underwood è finalmente presidente degli Stati Uniti, Doug Stamper si sta riprendendo dalla botta (fisica e morale) di Rachel.
Purtroppo questo inizio chiaro e diretto è già sintomo di uno dei problemi di questa terza serie: la trama va avanti sui binari. Se nelle prime due serie l’ascesa degli Underwood era una via tortuosa e interessante da seguire, qui si parte dalla cima della torre e l’obiettivo è restarci. C’è quindi molto meno dinamicità nella storia e fin dalla prima puntata è chiaro “dove” si andrà a finire: conta la rielezione, e solo quella. Tutto il resto, tentennamenti di Underwood e personaggi secondari, sono un evidente orpello, e in alcuni punti si arriva tranquillamente a definirli per quello che sono: fillerone * (la storyline di Remy Danton, novello redento sulla via di Damasco e pronto a una vita agricola nel Sud degli States ne è il triste esempio).
Siamo lontani dagli intrecci complicati delle serie precedenti, dove anche le costolette di Freddy avevano un ruolo. Sono riusciti a rendere noiosetto e scontato anche Doug Stamper e la sua sete di vendetta (e la sua redenzione finale, con una scena praticamente ambientata in Breaking Bad).
Concentrarsi al 100% su Claire e Francis è stata una scelta voluta? Se sì, non ha pagato. La dinamica della coppia dopo un po’ diventa stucchevole, è un “Claire fa un casino e Frank pulisce i cocci”, è Casa Vianello senza le risate (e i calci sotto il letto). Le mattane di una cinquantenne non sono un argomento interessante in una serie sulla spietatezza della politica.
Ed è il finale, quell’”I’m leaving” di Claire a Frank, il passo definitivo che trasforma il topic della serie da “politica americana” a “noioso feuilleton“.
Assistiamo purtroppo alla stessa deriva di Mad Men, passato da interessante serie sulla vita di una Ad Agency con sottofondo rosa a “questo è l’amore” tra pubblicità sbilenche.
Ed è un peccato, perchè tutto il resto che ha fatto il bene di House of Cards c’è ancora, Spacey è spettacolare, la Wright pure, il presidente russo e tutto l’intrigo con le Nazioni Unite era un ottima base su cui lavorare (magari abbassando il tono macchiettistico … ).
Così come rimane spettacolare l’idea di mettere tutte le puntate disponibili da subito, e permettere la visione in blocco.
Onestamente, messa così non me ne può fregare di meno della quarta, inevitabile, serie. Con tanti saluti al “la finiremo quando non avremo più niente da dire” sbandierato da Willimon in tutte le interviste. Non avevate già più niente da dire quando vi siete messi a scrivere questa.
“I’m leaving” lo dico io.
* Tvtrope definisce filler (da cui l’accrescitivo fillerone) “elementi di un serial che non hanno relazioni con il plot principale, non cambiano le relazioni tra i protagonisti e sono messi lì solo per consumare spazio”.