Breath of the Wild
Babbo Natale ha portato a casa il Nintendo Switch. È capitato eh, non che io abbia responsabilità nell’aver creato in mia figlia grande (7 anni) il desiderio di una console Nintendo, non che io l’abbia esposta a Super Mario, a Zelda, a Animal Crossing. Ma cosa vi viene da pensare…
Sta di fatto che appunto, la mattina di Natale si è materializzata in casa il Nintendo Switch.
Con Animal Crossing.
Con Just Dance 2021.
E, appunto, con The Legend of Zelda: Breath of the wild.
Il gioco non è nuovo, è del 2017, e non serve che leggiate queste righe per venire a sapere che è un capolavoro incredibile. E io non posso che far altro che confermare.
Ci ho messo circa 100 ore abbondanti per finirlo, da Natale a una settimana dopo Pasqua, senza giocare altro in mezzo. Mi sono preso il mio tempo, da gamer in disarmo, giocando quasi sempre con una o due figlie appoggiate alla spalla o a guardare la tv.
Figlie innamorate del mondo splendido che si distende davanti agli occhi, che si apre piano piano, quasi fin troppo lentamente all’inizio, ma che poi esplode, facendo sentire davvero il respiro della natura, il desiderio di vedere “cosa c’è alla fine della collina” che è il vero motore del gioco.
Che è una cosa strana per la serie di Zelda, che comunque, anche nelle incarnazioni post Ocarina Of Time, ha sempre tenuto e richiesto un certo ordine nelle cose da fare e nel come farle. Qui invece la libertà è totale: finito il tutorial che spiega come muoversi, come sopravvivere, quali sono i poteri di Link e due tre cose di storia, la mano è libera e l’intera Hyrule è ai nostri piedi.
E all’inizio proprio di piedi si tratta: come detto, ci si fa guidare dal puro desiderio esplorativo. Non ci sono oggetti da ottenere, “blocchi” da aggirare, posti che non si possono raggiungere.
Si può andare ovunque, subito. Basta la buona volontà e la pazienza di camminarci (o di planarci da una torre).
Poi fortunatamente una volta arrivatici ci si può tornare velocemente.
Anche se sembra semplice, non lo è. La necessità di camminare, di esplorare, di “mettere il culo sulla strada” unito alla genialata dei Sacrari (ci torno dopo) permette al gioco di srotolare davanti un buffet infinito di cose da fare.
Vuoi seguire la trama? Vai ai colossi.
Vuoi migliorare i poteri? Farma i mostri e cerca le fate.
Vuoi una scusa per girare il mondo? Cerca i Korogu (e fai belle foto nel frattempo).
Vuoi affrontare delle sfide, usando i poteri e risolvendo enigmi? Sacrari (e così intando accumuli vigore/cuori).
E via così, passando da un pezzettino di uno a un pezzettino dell’altro.
La sfida è “giusta”: non è un gioco difficile, se ci si applica un minimo per capire quale è il modo corretto e più vantaggioso di affrontare un nemico/enigma. Se ci si incoccia a voler “forzare” un passaggio, senza i cuori giusti o l’equipaggiamento, beh, può diventare molto difficile. I pazzi su Youtube che si lanciano nelle speedrun sono lì da vedere per capire quanto può essere duro ( e quanto sono bravi loro).
Io ci ho dato dentro tanto, non giocavo così a un videogioco dai tempi dell’ Xbox360 e di DeusEx Human Revolution; alla fine ho chiuso con tutti e 120 i sacrari conquistati, una tonnellata di Korogu, tutte le armature trovate (ma non potenziate…) e praticamente tutte le quest fatte, spulciando su internet onestamente solo la posizione di alcuni santuari.
Me lo sono spolpato.
E mi ha rimesso in pace con il videogioco, probabilmente creando almeno un altro paio di appassionate alla serie di Miyamoto.
Se avete l’opportunità, giocatelo.